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Giornata diocesana del seminario: Segni e semi di speranza

“Sforzatevi di accendere la fiamma della speranza nel luogo in cui vivete”. Questa esortazione del cardinale Francois-Xavier Van Thuan, (1928 - 2002), un grande uomo di Dio che, anche dalla prova durissima del carcere del Vietnam, dove per ben 13 anni è stato ingiustamente detenuto, “ha sempre saputo trasmettere speranza al fratello”, è valida per tutti, e penso sia molto appropriata anche per il seminario diocesano. Il tema scelto dalla nostra comunità per questo anno in vista del Giubileo è “Segni di speranza” (SnC 7) e va proprio in questa direzione. La presenza di un ancora discreto numero di giovani seminaristi deve essere motivo di speranza per la nostra Chiesa di Como, oltre che di fiduciosa gratitudine al Signore, “Padrone della messe”, che non dobbiamo mai stancarci di pregare. Tra le tante, una proposta formativa è quella dell’uscita comunitaria in alcuni vicariati della diocesi che permette ai seminaristi, assieme al servizio pastorale che vivono ogni fine settimana in parrocchia, di conoscere e riflettere sulla situazione concreta delle nostre comunità, oltre che vivere momenti di fraternità e di accoglienza. Molto bella è stata l’uscita a Morbegno (22- 24 novembre) dove abbiamo vissuto tre giorni intensi e sperimentato un bel clima di Chiesa. I seminaristi, ascoltando i nostri cari preti e vedendo tante persone di buona volontà davvero dedite e diverse realtà di fede ancora significative, seppure tra le molte innegabili fatiche che ci sono e che i cambiamenti in atto naturalmente comportano, sono riusciti a cogliere tanti segni concreti di speranza in mezzo al Popolo di Dio. Significativi, a mio avviso, sono state anche due serate di incontro molto piacevoli con i giovani e gli adolescenti in cui sono state poste ai seminaristi diverse domande e loro stessi ne hanno poste ai giovani presenti. Mi sono accorto di come la figura del prete e di chi si sta seriamente interrogando su questa vocazione costituisca ancora un bel punto interrogativo per i ragazzi e i giovani che, stupiti e sorpresi, hanno instaurato un dialogo franco, a volte provocante, ma molto cordiale con i nostri seminaristi. Lo scorso 18 novembre abbiamo invece vissuto una bella serata in seminario con i preti delle parrocchie di origine e di servizio pastorale dei seminaristi con anche la celebrazione dei Vespri e dell’Eucaristia insieme e la cena fraterna. Prima abbiamo avuto tra noi preti un buon momento di confronto e mi piace condividere con tutti una delle domande che hanno animato il nostro incontro e che avevo inviato in precedenza: Quali le speranze, i sogni, le passioni di questi seminaristi “che oggi Dio ci dona”? - e aggiungerei qui - “dei ragazzi e dei giovani delle nostre comunità?” Educare alla speranza penso che sia un compito primario della formazione dei nostri seminaristi e una caratteristica fondamentale dell’essere preti, discepoli missionari, oggi in mezzo alla gente. Papa Benedetto XVI così scriveva alcuni anni fa: «Questa è veramente una delle sfide più grandi del nostro tempo. Il sacerdote, certamente uomo della Parola divina e del sacro, deve oggi più che mai essere uomo della gioia e della speranza, deve essere un prete contento». Nel prossimo Giubileo andremo a Roma due volte come seminario: per vivere l’incontro mondiale dei seminaristi a giugno e il pellegrinaggio con tutta la diocesi a settembre. Mi auguro, però, che per ciascuno di noi il cammino della speranza sia soprattutto quello quotidiano, come alcune altre parole molto belle del cardinal Van Thuan ci ricordano: “Il Signore ti guida per questa strada in modo che «tu possa andare a portare frutto, frutto duraturo» (Gv 15,16). La strada si chiama «il cammino della speranza» perché è bella come la speranza che illumina. Perché non dovresti avere speranza se ti metti in cammino con Gesù verso il Padre, con la forza dello Spirito Santo?” Grazie a tutti per l’affetto nei confronti del seminario, per la preghiera e il sostegno concreto. Che, insieme, possiamo essere “segni e semi di speranza” per questo nostro mondo e in questo nostro tempo!                                                                                                            Don Alessandro Alberti, rettore del Seminario.


La comunità del Seminario. Quest’anno sono 19 i seminaristi che formano la comunità del Seminario Vescovile di Como, insieme al rettore don Alessandro Alberti, al vicerettore don Gianluca Salini e al padre spirituale don Alberto Erba. Eccoli, divisi per classe e luogo di provenienza: I Teologia: Samuele P. (Rogolo), Samuele U. (Rovenna), Giovanni V. (Cadorago). II Teologia: Giovanni T. (Colico), Gabriele (Rovellasca), fra Stefano (Fraternità Santo Spirito di Colda). III Teologia: Francesco (Bianzone), Davide (Lomazzo). IV Teologia: Gregorio (Cosio), Lorenzo (Borgonuovo di Piuro), Paolo (Chiavenna), Emanuele (Semogo). V Teologia: Giovanni B. (Olgiate Comasco), Daniel (Lomazzo), Carlo (Civello). Diaconi: Nicola (Lanzada), Mauro (Olgiate Comasco), Manuel (Bormio), David (Cernobbio).


Preghiera per i giovani del nostro Seminario. (del Vescovo Oscar)

Dona con abbondanza, o Padre, ai giovani del nostro Seminario i doni del tuo Spirito, perché siano felici di aver seguito Gesù, pienezza di vita e di gioia. Sprigiona in loro energie nuove e sempre fresche, coraggio ed entusiasmo creativo perché sappiano raccontare agli altri, soprattutto ai loro coetanei, affascinandoli, che l’incontro con il Signore Gesù, maestro divino, e la sua sequela sono l’affare migliore della loro vita. Amen


Giornata del SICOMORO e di BETANIA

 

Domenica 10 novembre


Da ormai più di dieci anni è presente nella nostra diocesi un’esperienza di fraternità e di accompagnamento vocazionale degli adolescenti in età scolastica chiamata “Sicomoro“. Da qualche anno è nata anche un’esperienza parallela proposta per le ragazze e chiamata “Betania“. È una proposta personale e aperta a quei ragazzi e ragazze delle scuole superiori desiderosi di approfondire la propria crescita cristiana nell’amicizia con Gesù e nella ricerca e nella conoscenza di tutte le vocazioni cristiane. Entrambe si caratterizzano per essere delle comunità a tempo nelle quali gli adolescenti vivono circa a ritmo mensile alcune settimane di vita comune in una casa apposita, accompagnati da un’equipe educativa formata da un prete, una coppia di sposi e, per l’esperienza femminile, anche da una o più consacrate. Gli adolescenti, rimanendo nei rispettivi territor di appartenenza, continuano a frequentare i propri impegni (anzitutto quello scolastico) e si arricchiscono dell’esperienza comunitaria e di amicizia con una proposta quotidiana di preghiera, di riflessione e di discernimento aperto a tutte le possibili vocazioni della vita cristiana. Si tratta di una proposta educativa cristiana e di accompagnamento vocazionale. È diffusa già da alcuni anni in qualche vicariato e il recente Sinodo ha auspicato che si possa diffondere sempre più.

Oggi in tutte le parrocchie della Diocesi preghiamo per i ragazzi e le ragazze che vivono l’esperienza del Sicomoro e di Betania con i loro educatori (preti, coppie, consacrate). Per accompagnare questa esperienza esiste un’Associazione che è possibile sostenere con donazioni ed eventualmente anche iscrivendosi ad essa. Al termine della messa per chi desidera è possibile ricevere del materiale informativo per donare e per iscriversi.

Giornata del Ringraziamento: “La speranza per il domani: verso un’agricoltura più sostenibile”.

 

Domenica 10 novembre


Una spiritualità feconda di cui abbiamo assoluto bisogno anche oggi”, sottolinea don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro, per il quale “anche il mondo agricolo è assetato di riconciliazione con la terra”.

Il tema della Giornata, spiega, “ci apre al Giubileo che è alle porte. L’idea di fondo è che stiamo vivendo un tempo opportuno di semina. Se vogliamo offrire speranza dobbiamo tornare a seminare. E la semina oggi può essere declinata in due modi: la salvaguardia del terreno e il coinvolgimento delle giovani generazioni”. “I disastri recenti in Italia (Emilia-Romagna e Toscana) e in Spagna (Valencia) ci ricordano quanto sia importante porre fine al consumo di suolo, che ha ridotto la produzione alimentare e riduce la possibilità di assorbimento idrico. La cementificazione ha conosciuto, tra le conseguenze più rilevanti, l’aumento del rischio idrogeologico, che allarma sempre più”, afferma don Bignami evidenziando che “in questo contesto, c’è bisogno di salvaguardare l’ambiente, preservare gli ecosistemi e tutelare la biodiversità, come chiede l’art. 9 della Costituzione italiana”.

Secondo il direttore dell’Ufficio CEI, “la seconda semina passa per le giovani generazioni e sulla scommessa che siano capaci di cura della terra”. “Ridurre sprechi e consumi, sostenere le comunità locali, favorire le conoscenze tradizionali – ricorda – sono diverse modalità con cui responsabilizzare i giovani. I Vescovi invocano l’apertura di un «laboratorio ideale» nel nostro Paese per sperimentare forme innovative di agricoltura. Per questo i giovani vanno educati al consumo critico, possono divenire modelli di ritorno alla terra e possono promuovere politiche agrarie esigenti e di lunga prospettiva”.

CAMBIO D’ EPOCA

La ripresa degli incontri sul Libro Sinodale, martedì scorso presso l’oratorio di Dongo, è stata tenuta dal Dr. Roberto Mauri, co-fondatore del Centro Studi Missione Emmaus di Milano. La serata è stata veramente interessante, avvincente e l’attenzione dei presenti non ha mai avuto bisogno di essere richiamata perché il Relatore, con verve e logica eccezionali, ha esposto una serie di constatazioni e ha proposto dei percorsi che sono andati a coinvolgere profondamente ognuno. Una ciotola rotta e riparata con la tecnica del kintsugi (uso dell’oro –in questo caso simbolo dello Spirito Santo- come collante) è stata l’immagine di riferimento per la situazione attuale della Comunità cristiana. Lo spunto di partenza (…dove tutto è iniziato, dove tutto inizia ancora) è stata una lettura particolare dell’episodio della pesca miracolosa. Siamo in Galilea, è finito tutto, gli Apostoli sono una comunità unita e smarrita e ritornano a fare ciò che sanno fare: pescare. Va male anche questo… non prendono niente… Ma qui subentra una sfida rivelativa: Gesù Risorto che chiede da mangiare e loro non hanno neanche un pesce! Subito dopo una esperienza di rottura: gettate le reti a destra (che implica l’uso del braccio sinistro cioè di quello più debole). Gli Apostoli si lasciano coinvolgere in una esplorazione abilitante: vediamo cosa succede… la rete è piena! L’esito è una ri-narrazione trasformativa, si parlano tra loro: “non l’avevo riconosciuto, è Lui!

Oggi si ripresenta una situazione analoga: la Chiesa si trova come se fosse di fronte a un burrone: da una parte ci sono le forme con cui si vive la fede, la parole con cui la si esprime e dall’altra l’esperienza di vita (non nego l’esistenza di Dio, ma neanche mi interessa). Inevitabilmente in un clima di indifferenza generale sorgono delle tensioni sui modi di agire, di porsi e di proporre: di fronte a un cambio d’epoca si rendono necessarie scelte di cambiamento nei rapporti tra Comunità e Territorio (es. accorpamenti pastorali). Inutile, in questo contesto, indugiare a risolvere dei singoli problemi, rispondere a urgenze contingenti, soddisfare dei semplici bisogni, serve una scelta capace di trasformare ogni cosa: un “SOGNO MISSIONARIO” (Papa Francesco). Occorre “gettare le reti a destra”: - superare i vecchi riferimenti – riconoscere i nostri modelli impliciti – rinunciare a salvare il salvabile – credere nella “nuova creazione” delle Comunità Pastorali. In un mondo complesso occorre “viverci dentro”, occorre SINODALITA’ cioè camminare insieme.

La lettura del brano dei Discepoli di Emmaus porta a individuare tre condizioni necessarie per questo cammino di cambiamento insieme: - apertura del cuore - apertura della mente – apertura della volontà; condizioni da attuare nella Comunità con tre step fondamentali: 

- Processi partecipativi – Processi decisionali – Processi di verifica.

Il “sogno missionario” nasce da un percorso sinodale. In concreto:

*Far emergere il paradigma (individuare quale è il presente percepito)

*Sogno (quale è quello della Comunità Valle Albano?)

*Priorità

*Cambiare “da subito” la prassi

*Sperimentazione (di ciò che si cambia)

*Istituzionalizzazione.

I segni caratteristici di una Comunità Sinodale sono:

*Corresponsabilità

*Ascolto

*Incontro e Dialogo

*“Abitare” tensioni e incompletezza

*Discernimento.

Questi 5 segni devono permeare ogni atto, ogni cambiamento. 


Una frase che è stato sfondo dell'incontro la ritroviamo in Evangelii Gaudium 27: "Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione". 

Commemorazione dei fedeli defunti

La ricorrenza della Commemorazione dei Fedeli Defunti suscita in tutti noi il ricordo di chi ci ha lasciato e il desiderio di rinnovare nella preghiera quegli affetti che con i nostri cari ci hanno tenuto uniti durante la loro vita terrena. È ciò che esprimiamo con il termine suffragio, parola che deriva dal latino suffragare che significa: soccorrere, sostenere, aiutare. In vari modi la Chiesa ci insegna che possiamo suffragare le anime dei nostri cari defunti: con la celebrazione di Sante Messe, con le opere di carità, con l’applicazione delle indulgenze. Possiamo acquistare a favore delle anime dei nostri cari defunti l’indulgenza plenaria (una sola volta) dal mezzogiorno del 1° novembre fino a tutto il 2 novembre vistando una chiesa e ivi recitando il Credo e il Padre Nostro. Sono inoltre da adempiere le tre condizioni che occorrono per qualsiasi indulgenza plenaria:

confessione sacramentale;

comunione eucaristica;

preghiera secondo le intenzioni del papa, recitando il Padre Nostro, l’ Ave Maria e il Gloria al Padre.

La stessa facoltà è concessa nei giorni dal 1° all’ 8 novembre al fedele che visita il cimitero e prega per i fedeli defunti, sempre rispettando le medesime condizioni generali (confessione, comunione, preghiera secondo le intenzioni del Papa e distacco dal peccato) . 

Preghiera vicariale per le vocazioni del terzo sabato del mese. Modifiche e riflessioni

Riprende, a partire dal 19 ottobre p.v. (ogni terzo sabato del mese), la preghiera per le vocazioni sacerdotali, religiose e di ogni vocazione benedetta e santificata dall’Amore di Dio. Questo nuovo anno pastorale propone, per la preghiera, un nuovo percorso: partendo dalla chiesa di Santo Stefano (alle ore 07:00), con la recita del santo Rosario, fino al Santuario Madonna delle Lacrime, con la celebrazione della santa Messa (alle ore 07:30). È il desiderio di camminare insieme alla riscoperta della motivazione importante per la scelta di questa preghiera comunitaria. Gesù stesso ci chiede questo e noi, generosamente, rispondiamo con altrettanto desiderio che Lui doni santi sacerdoti e ferventi religiosi alla Sua Chiesa. Accogliendo la parola di Gesù che ci dice: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!» (Mt 9,37), possano anche le nostre famiglie, dialogare sulla bellezza del dono di un sacerdote, pastore, nelle nostre comunità: quanto sarebbe splendido e arricchente che ogni parrocchia abbia ancora il “suo” prete! Ma sappiamo che, per il tempo storico in cui stiamo vivendo, ciò non è possibile e questo ci chiede di aprirci alle necessità comunitarie, al di fuori della parrocchia. La preghiera, nei nostri incontri, nella forma di supplica, sia quest'anno, anche un canto di lode e di ringraziamento per il dono recente nel nostro vicariato di un sacerdote novello: don Francesco; di un novello diacono: don Mauro; e il dono della professione, nella famiglia francescana, di fra Mattia Biffi. Grazie. 

Professione di vita evangelica nell'OFS di Ivana

È per me una grande gioia, essere accolta nella Fraternità dell’Ordine Francescano Secolare in Dongo.

Cosa cambia per me da questo momento in poi? Diverse persone che conosco mi hanno posto questa domanda nei giorni scorsi. Non si tratta di fare qualcosa in più, né di essere diversa da come sono ora (almeno esternamente…). Ciò che muove è lo Spirito, che gonfia le vele della vita, che dà slancio e sostiene il mio fare quotidiano.

Il laico che esprime il suo SI in modo esplicito, dichiarato, di fronte alla comunità cristiana fa un po’ strano al giorno d’oggi; è vista in genere come esperienza del religioso, non tanto del laico…ma, se ci pensiamo bene, ogni cristiano, in forza del Santo Battesimo, racchiude in sé il seme della fede in Gesù Cristo e come credente ogni battezzato è chiamato a testimoniare il Suo Amore nel mondo.

Sarebbe troppo e troppo grande pretendere di portare avanti da soli una tale missione.

Grazie allora Signore per questa chiamata alla vita in Fraternità. In Fraternità non si è soli, si condivide, si cresce insieme nella fede e nell’amore; si trovano radici che alimentano il vivere cristiano e fanno riscoprire la gioia di essere di Cristo.

Grazie Signore per il dono del tuo Santo Spirito, grazie per quella piccola vela in più che da oggi metti vicino alla grande vela della mia vita; è la piccola vela dello spirito francescano che ci aiuta a lasciar andare il superfluo per vivere e testimoniare con fiducia la Tua parola.

Voglio ringraziare le persone presenti la sera del 3 ottobre alla mia professione al terzo ordine francescano secolare. Grazie alle sorelle e ai fratelli dell’OFS di Dongo e di Chiavenna, grazie ai sacerdoti presenti, a Don Cesare, Padre Simone, Don Francesco; Grazie a Don Ivan che seppur non presente ha sicuramente ricordato questo momento nelle sue preghiere; grazie ai miei familiari e agli amici…mi sono sentita accolta, accompagnata e sostenuta da tutti voi. 

Ivana

Fraternità OFS di Dongo 

L'accoglienza a don Francesco

 

Carissimi della Comunità Pastorale della Valle Albano, sabato 21 settembre scorso mi avete accolto nella vostra comunità: è stata una serata molto significativa, che mi ha meravigliato positivamente e di cui vi ringrazio! Da questa partecipazione capisco che c’è molta voglia di proseguire il cammino e mettere a disposizione le proprie qualità per tutti: sono qui per aiutarvi (e aiutarmi) a portare continuità in quest’opera. È chiaro che, come dicevo sabato, per fare ciò è necessario essere in comunione tra di noi ed essere avvolti dall’amore del Signore: questo significa sia che i preti vi vogliano bene e vi ascoltino…ma anche il viceversa, non dimentichiamocelo mai: anche noi “don” abbiamo bisogno di voi. Noi sacerdoti siamo per la comunità, non un possesso di qualcuno. Credo che il bene che compiamo nasca dal desiderio di rispondere alla prima domanda che Gesù pone nel Vangelo: “Che cosa cercate?”; il nostro “fare” ed “essere” deve andare di pari passo con la risposta a questa domanda fondamentale del cristiano, presente anche in ogni uomo e donna di questo mondo. Vi ringrazio ancora per il bene di cui già mi avete circondato e sono certo che questo possa continuare per il tempo che il vescovo mi lascerà con voi. La gioia del Signore sia la vostra forza, andate in pace!

 

Il saluto a don Francesco da parte della comunità di Valmorea.

 

Caro Don Francesco,

la tua comunità di Valmorea è qui presente e ti accompagna in questo momento che ti vede compiere il primo passo importante della tua vita sacerdotale: diventare vicario della comunità pastorale Valle Albano.

Lasci la Valle del Lanza, con i suoi verdi panorami per arrivare qui nel cuore del lago di Como che ci appare oggi in tutta la sua bellezza.

Ti consegno idealmente alcune parole, che ci ha lasciato in eredità un nostro compianto sacerdote e parroco don Renzo Scapolo; parole che sono impegnative per noi di Valmorea e che ben descrivono i caratteri di una comunità civile, di una comunità cristiana: uguali, diversi, uniti aperti.

Uguali perché tutti legati da una identità comune di luoghi e storia, ma diversi perché ciascuno svolge un ruolo ed ha un carisma differente; uniti perché essere parte di una comunità è qualcosa di più di un semplice stare insieme, ma è una comunione di intenti; e infine aperti a un mondo che cambia rapidamente, più di quanto pensiamo o vogliamo, e che ci pone sfide quotidiane cariche di preoccupazione e speranza.

Caro don Francesco la tua comunità è qui e ti augura buon cammino.

Il saluto di don Giuseppe

 

Carissimi tutti nel Signore, mi è sembrato opportuno salutare tutti voi celebrando la santa Messa, e alla luce di quella parola, vi rinnovo anche qui su questo bollettino la mia gratitudine e il mio saluto, che vuole essere non un addio ma un sicuro arrivederci, come e quando solo Dio lo stabilirà.

“Pietro… Pietro… sei un disastro! Non fai a tempo a farne una giusta che subito ne sbagli un’altra!”.

Non si può certo sapere quello che stava pensando Pietro dopo che Gesù lo invita a seguirlo, ma mi risulta consolante e illuminante la sua figura. Consolante perché me lo posso sentire vicino, quante volte al giorno mi capita di trovarmi nella stessa situazione! Il suo viaggio, la traiettoria della sua vita e santità mi dona tanta speranza. Illuminante perché mi fa capire che la sua figura, per come giunge a noi dai racconti evangelici ricalca la situazione di ogni uomo che accetta di entrare in relazione con Dio. Gli evangelisti nel parlarci di Pietro non nascondono la contraddizione insita in ogni credente. Meglio sarebbe forse parlare di tensione più che di contraddizione. Un attimo prima Pietro accoglie dentro di sé un’intuizione spirituale che lo porta a un atto di fede puro e fortissimo, un attimo dopo si lascia sedurre da Satana e dà seguito alle sue ispirazioni. Una mirabile tensione tra il Cielo e la terra. In un momento eleviamo a Dio le più alti lodi e rendiamo a lui Gloria per la sua stupenda opera, e con la stessa bocca sappiamo subito dopo proferire parole che vengono dal Maligno. Gesti di estrema carità pura e gratuità e un attimo dopo cupidigia, orgoglio, invidia e ira ci trascinano verso pensieri e azioni contro i nostri fratelli. Siamo sempre noi sia in un caso che nell’altro; in questa tensione si svolge la nostra esistenza, attimo per attimo, scelta dopo scelta. E come Pietro anche noi siamo chiamati a districarci dentro questa tensione senza scappare. Già, senza “tirarsi in dietro”, come ci suggeriva la prima lettura; mettendoci la faccia e continuando a “petto esposto” la vita anche quando le cose si fanno difficili e dure. Badare bene: non sottrarre il petto non vuol dire agire come se nulla ci possa toccare e scalfire, né tanto meno significa comportarsi con ostinato orgoglio e irremovibile animo. Non sottrarre il petto vuol dire porsi difronte alle cose accettando di metterci il cuore, con il rischio che possa divenire un bersaglio che vien preso di mira. Forse questo è il segreto di Pietro. Mi piace pensare che, come capita anche a tutti noi nei momenti difficili, anche lui sarà tornato con la memoria a quel giorno, quando Gesù è entrato nella sua vita. Quando si è sentito chiamato a seguirlo, perché nel volto di quell’uomo di Nazareth Dio gli ha preso il cuore. Unica condizione della sequela: “mi ami tu?”. È dentro quella unica condizione che tutta la tensione si scioglie e si rinnova l’incontro originale e rigenerante con Gesù che ci interpella personalmente: “Tu chi dici che io sia?”. Quanto mettono in difficoltà le domande dirette; quanto sappiamo dire bene ciò che pensano gli altri; quanto invece chiede libertà rispondere per quello che si ha dentro.

“Tu Sei il Cristo”. Quante volte me lo sono ripetuto e ti ho incontrato e grazie allo Spirito ti ho riconosciuto! Nel rapporto fraterno con don Romano e Padre Simone e poi con don Ivan. In ogni eucarestia celebrata. Nei volti dei bambini generati alla vita divina nel battesimo. Nelle lacrime asciugate a chi piangeva un caro già tornato a Dio. Anche in quella croce portata su per la scalinata di San Gottardo la prima via Crucis dopo la pandemia. Nell’abbraccio dei ragazzi che cercavano un po’ di riparo e un po’ di casa. Tu sei il Cristo! Mi hai chiesto solo di avere un cuore che desiderasse null’altro che di amare come tu ci ami. Il centro della tensione è tutto in questa richiesta. La stessa ripetuta a Pietro sulle sponde del Lago. E per ogni volta che falliamo tu rinnovi la domanda. Grazie Signore per questo tempo qui, per i volti, le storie e le relazioni di chi ha accolto, attraverso la mia fallibile persona, la tua chiamata ad amare sempre, senza porre resistenza e senza tirarsi indietro. Grazie Signore perché il mio partire lascia uno spazio per accogliere un dono tanto raro per una comunità: un prete novello. Una nuova e stupenda missione affidata non solo ai confratelli sacerdoti ma a tutta la comunità. Con don Francesco vivrete un tempo nuovo di grazia. Anche attraverso di Lui il Signore continuerà a donarvi un incontro personale nel quale sciogliere la vostra tensione. Il Signore ve lo affida perché lo generiate pastoralmente alla vita sacerdotale, sarà attraverso il vostro amore che imparerà a coniugare nella vita ministeriale ciò che celebra in ogni messa sull’altare. Nella consapevolezza che nulla può vincere l’amore, parto con la certezza che continueremo nel Signore ad amarci come lui ci ha insegnato.

Con gratitudine e affetto, vostro nella fede, don Giuseppe

Professione temporanea di Fra Mattia.

 

Sabato 31 Agosto … dall’omelia di fra Francesco: “Un giorno questo in cui si iniziano a raccogliere le primizie di una sequela di un innamoramento nei confronti del Signore Gesù Cristo attraverso l’esperienza viva di Francesco d’Assisi che da 800 anni continua a generare, a fecondare, a interrogare, a far cercare l’Essenziale perché davvero se nella vita non cerchiamo l’essenziale che cosa stiamo cercando?” In questo sabato 31 Agosto nella quiete e nella tranquillità di San Damiano, in quel di Assisi, si è svolta una grande celebrazione: sette novizi dell’Ordine dei Frati Minori hanno fatto la loro prima professione iniziando così il cammino per entrare nell’Ordine Francescano ponendo la loro vita alla sequela di Cristo sull’esempio del poverello di Assisi e sposare in tutto e per tutto il suo modello di vita in povertà umiltà e castità. Tra i sette novizi era presente anche Mattia Biffi giovane donghese che tutti conosciamo. Quale gioia e motivo di grande letizia per la Comunità Pastorale della Valle Albano e per l’intero nostro Vicariato. Lo Spirito Santo aleggia in alto lago e miete frutti divini e di questo non possiamo che ringraziare il Signore! Eravamo un gruppo di 15 in rappresentanza dell’Alto Lago presenti alla cerimonia, insieme a Don Ivan e Don Giuseppe: testimoni di questo dono gratuito che il giovane Mattia fa della sua vita a Cristo. Per noi il tutto è cominciato il giorno prima, venerdì 30, con l’arrivo all’eremo di La Verna dove abbiamo avuto modo di immergerci nella profonda spiritualità di San Francesco, nel suo grande dolore, derivato da un cuore che ha molto amato il suo Signore fino ad imprimere nella sua carne le stigmate del Crocifisso. In San Francesco possiamo rileggere il dolore, che ci attraversa nella vita, come esperienza di trasformazione che ci insegna l’importanza del sacrificio, il “fare sacro” ossia la capacità di rendere sacro il nostro agire per raggiungere la pienezza della vita, la meta più alta della realizzazione e la vera letizia, perché senza sacrificio, senza fatica non c’è pienezza, non c’è soddisfazione. Da La Verna abbiamo poi raggiunto la città di Assisi dove abbiamo visto e vissuto i luoghi di San Francesco: dalla basilica a lui dedicata, alla basilica di Santa Chiara, Santa Maria degli Angeli con la Porziuncola, luoghi di reale testimonianza della vita di San Francesco, del suo cammino spirituale, della sua vita in fraternità; luoghi di ritiro, di preghiera, di spiritualità profonda fino ad arrivare a San Damiano dove tutto ha inizio per Francesco con l’invito del crocifisso “Francesco va’ ripara la mia casa che è in rovina!” e dove abbiamo avuto modo di essere testimoni dell’inizio del cammino di Fra Mattia. La sua voce decisa, ferma e determinata riecheggia ancora nelle orecchie, nella mente e nel cuore di noi che lo abbiamo sentito pronunciare la promessa. Che grande dono! Che grande conforto dell’anima sapere, vedere e conoscere questa realtà di vita condivisa in fraternità. Dev’essere così il paradiso! Davvero è stato come portare in terra uno sprazzo di paradiso, ma giusto un momento per poi ritornare nella realtà quotidiana a sporcarsi le mani e i piedi di umanità, perché come ricordava fra Francesco nell’omelia “… la nostra preghiera non serve a niente se poi non ci sporchiamo le mani di umanità, se la parola ascoltata non diventa pratica, se i piedi non ci portano dove l’uomo è perso, dove crede di essere libero ma ha il cuore morto… Questa è la passione di Francesco, questa è stata la passione per 800 anni dei francescani, questo ci deve riguardare: la tristezza di Dio nel guardare uomini che lo onorano con le labbra, ma che hanno il cuore spento e l’uomo onora Dio quando è vicino al povero, vicino a chi ha il cuore morto ma crede di essere vivo e nostro cuore è vivo quando è rivolto al Signore. La cosa più preziosa che hai tu che stai cercando l’Essenziale è il tuo cuore.” L’augurio allora che vogliamo fare a Fra Mattia è che il suo cuore possa essere sempre in alto, rivolto al Signore. “Con ogni cura vigila sul tuo cuore, da esso sgorga la vita” (Prov. 4,23). Ti assicuriamo, carissimo Fra Mattia, la nostra vicinanza nella preghiera e il nostro impegno perché anche i nostri cuori siano in alto, rivolti al Signore e mai spenti, lontani. Con te ci impegniamo a dire quotidianamente il nostro eccomi perché la nostra vita possa essere una perenne lode a Dio Padre buono e misericordioso che mai si dimentica dei suoi figli. San Francesco, Santa Chiara e Maria Santissima, venerata nel nostro Santuario come Madonna delle Lacrime, ti siano sempre a fianco, sostengano il tuo cammino e ti accompagnino a quella pienezza di vita che solo il Signore Gesù sa donare ai suoi figli.

Oltre l'Italia...l'Albania!

Quest'estate Cecilia Marazzi, una giovane della nostra comunità pastorale, insieme ad un gruppo di giovani di tutta Italia ha partecipato all'esperienza missionaria in Albania con le Suore di Madre Teresa a Scutari (Albania). E' possibile rileggere la loro interessante esperienza cliccando sulla foto a sinistra che rimanda all'articolo sul sito dei saveriani!

Maledizione, malocchio, cartomanti e indovini  di Gianfranco Ravasi 

Si ha un bel dire che la scienza e la tecnologia dominano oggi la scena. Eppure una folla (e non sempre di ingenui e sprovveduti) si rivolge o crede a cartomanti, maghi, indovini, inventori di oroscopi e affini.Tempo fa mi fu indirizzata questa domanda: «Come la mettiamo con le maledizioni bibliche e col Signore che colpisce i nemici di Israele col “delirio, la cecità, la pazzia” (Deuteronomio 28,28)?». Siamo in presenza, sia con le maledizioni, sia col parallelo antitetico delle benedizioni, di un dato presente in tutte le culture religiose. Si tratta di un fenomeno letterario (si hanno infatti delle formule espressive codificate), sociale (riflettono situazioni e convinzioni popolari) e teologico (hanno alla base il coinvolgimento di Dio stesso). Il principio che vi è sotteso è duplice. 

Da un lato, si vuole esprimere la fiducia nella «moralità» di Dio: il Signore non può restare indifferente nei confronti del male e dell’ingiustizia ma deve intervenire ristabilendo l’armonia violata dal peccatore. Si tratta, quindi, di un appello al giudizio divino, la cui sentenza è imparziale e giusta. D’altro lato, si ha un ulteriore tipo di fiducia, quello nella parola che nelle civiltà dell’antico Vicino Oriente era considerata dotata di efficacia soprattutto quando veniva pronunciata in un contesto sacrale. 

Come accade per le parole del sacerdote alla consacrazione, capaci di rendere realmente presente Cristo sotto il segno del pane e del vino, così il fedele ebreo era certo di “costringere” Dio a intervenire col suo giudizio attraverso la maledizione rituale. Il contenuto della maledizione era regolato da una dottrina cara all’Antico Testamento, quella della retribuzione, che potremmo riassumere nel binomio «delitto-castigo»: se hai peccato, Dio ti punirà con una malattia. 

Contro questa tesi reagiranno aspramente Giobbe e lo stesso Gesù che, davanti al cieco nato, si ribellerà all’idea che la sua cecità sia frutto di un peccato di quello sventurato già nel grembo materno o dei suoi genitori, come sostenevano le varie scuole rabbiniche di allora (Giovanni 9,1-3). Siamo, quindi, in presenza di una concezione che dev’essere spogliata dagli elementi popolari mitici attraverso quella corretta interpretazione che spesso abbiamo spiegato durante l’ormai lungo percorso che stiamo conducendo da tempo in questa rubrica. 

Con l’acqua sporca, però, non si deve gettare anche il bambino: fuor di metafora, dobbiamo affermare la verità sottesa. Dio non maledice infliggendo malattie, ma non è indifferente nei confronti della colpa. Con la sua parola ribadisce ciò che è bene e ciò che è male e riserva il suo intervento alla fine della storia personale e universale (Matteo 25). La nostra parola di maledizione o il cosiddetto «malocchio» non hanno nessun effetto maligno sul prossimo, contrariamente alle leggende popolari; anzi, si ritorcono sul soggetto che le pronuncia come atto contro la carità e il perdono. 

Lapidarie sono le affermazioni di Cristo nel Discorso della montagna: «Chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, sarà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geenna » (Matteo 5,22). I due termini usati da Gesù nell’originale aramaico che esplicitano (raqa’) o evocano (sotto il greco môré) hanno una carica molto più forte della traduzione adottata perché bollano il prossimo col desiderio di emarginarlo. Al contrario, questa maledizione nel giudizio di Cristo si trasforma in un boomerang, in una paradossale autocondanna di chi l’ha emessa.

L’ arcobaleno di Cristiana Scandura.

 

“Mamma, Mamma: guarda” – gridò il piccino di tre anni rivolto alla sua Mamma, saltando di gioia, con il ditino puntato verso il cielo, che sembrava ancor più sconfinato visto da lui e un grande sorriso che illuminava il suo visino, attraversandolo da una parte all’altra come una mezzaluna – “C’è un arcobaleno. Che bello!”. La mamma rispose, per nulla contagiata dallo stupore del piccolo: “Figlio mio, io vedo solo le nuvole…”.

Ecco, questa parabola mi sembra che esprima bene il tempo che stiamo vivendo. L’arcobaleno c’è, per grazia di Dio, ma sempre più spesso ci fermiamo a contemplare le nuvole. L’arcobaleno c’è, ma abbiamo perso la capacità di cercarlo, di vederlo, di stupircene, di gioire e di ringraziarne il Signore. Fuori di metafora, il bene è presente nella società odierna ed è anche tanto. Gli esempi di santità ci sono anche nel mondo di oggi.

I santi non sono confinati nei secoli lontani, al contrario, sono presenti oggi, nelle nostre abitazioni, proprio accanto a noi, se ci pensiamo bene forse vi rientra anche il nostro postino o la catechista, il bidello o la suora che ci sorride sempre, il rivenditore dell’edicola o la vicina di casa… Per grazia di Dio, nel corso della storia non sono mai mancati gli esempi di uomini e donne che hanno vissuto la santità nell’umile quotidiano, in qualunque stato di vita, diventando testimoni luminosi della fede.

Riflettere su di essi, meditarne la vita, raccontare il bene che hanno compiuto, la fortezza con cui hanno affrontato le inevitabili prove dell’esistenza, la gioia con cui hanno vissuto il Vangelo, costituisce per noi uno stimolo immenso a fare altrettanto. Ma mi sorge un dubbio: che non sia proprio questo il motivo per cui continuiamo a guardare le nuvole, per non doverci poi rimboccare le maniche e fare la nostra parte? Ma è proprio questo impegno nel bene che rende la vita un’avventura meravigliosa.

Sì, lo spettacolo della santità è come un meraviglioso arcobaleno. Ogni santo, ogni testimone della fede, in definitiva ogni uomo e ogni donna è chiamato a riprodurre in sé una sfumatura di colore unica, personale, irripetibile, originale.

In un’epoca in cui serpeggia una sorta di comodo pessimismo che non porta a nulla di buono e che vi confesso mal sopporto, ritengo tenacemente doveroso, anzi più che doveroso gioioso, ma anche onesto e obiettivo divulgare i luminosi esempi di vita dei testimoni della fede dei nostri giorni. Si tratta di vite riuscite, belle, armoniose, colorate come i colori di un arcobaleno che infondono speranza, ottimismo, desiderio di impegnarsi nel promuovere il bene, voglia di lasciare un’impronta positiva in questo mondo.

Insomma, essere santi, esserlo oggi: è possibile.

Esercizio estivo

Un salutare esercizio che potremo fare in queste settimane di riposo estivo, ha a che fare con lo sguardo verso noi stessi e con il coraggio di prendere un tempo per noi stessi.
Gesù ci insegna a fermarci, a prenderci del tempo e guardarci per come siamo.

Proviamo ad allentare le nostre difese che ci portano, molto spesso, ad identificarci in ciò che facciamo. Io non sono quello che faccio, ma molto di più…
Gesù, come ci ricorda il vangelo, ripete anche a noi questa parola: andiamo via, e riposatevi un po’.

Lo sguardo di Gesù va a cogliere la stanchezza dei suoi. Non si ferma a misurare i risultati dei nostri sforzi e dei nostri ruoli, per lui prima di tutto viene la persona, la salute profonda del cuore.

Più di ciò che fai, a Gesù interessa ciò che sei: non chiede ai dodici di elaborare progetti, di preparare nuove missioni o affinarne il metodo, solo li conduce a prendersi un po’ di tempo tutto per loro, del tempo per vivere. È il gesto d’amore di uno che vuole loro bene e li vuole felici.

Come suggerisce questo testo molto noto:

Prenditi tempo per pensare / perché questa è la vera forza dell’uomo
Prenditi tempo per leggere /perché questa è la base della saggezza
Prenditi tempo per pregare /perché questo è il maggior potere sulla terra
Prenditi tempo per ridere /perché il riso è la musica dell’anima
Prenditi tempo per donare /perché il giorno è troppo corto per essere egoista
Prenditi tempo per amare ed essere amato/perché questo è il privilegio dato da Dio
Prenditi tempo per essere amabile / perché questo è il cammino della felicità.
Prenditi tempo per vivere!

Prendiamoci del tempo, stando anche a casa, e proviamo a stare con Gesù e con noi stessi.
Stai con Gesù, lo guardi agire e lui ti offre il primo insegnamento: come guardare, prima ancora di come agire. Poi, le parole e le azioni verranno e saranno quelle giuste

Vivere la fede in vacanza (di Riccardo Maccioni )

E’ arrivata l’estate e per molti le vacanze.

E, immancabile, porta con sé il messaggio del “don”, del parroco, del direttore spirituale: ricordati che la fede non va in vacanza. E se invece ci andasse? Nel senso che il periodo di riposo serve anche a staccare da abitudini incrostate, da atteggiamenti spirituali stantii, da pesantezze non solo fisiche. Resettare, o meglio aprire le finestre dell’anima per fare entrare aria fresca può essere molto utile. Ben vengano allora, per chi ne ha la possibilità, la spiaggia, la gita in montagna, o anche solo lo stop cittadino, magari in compagnia, sorseggiando qualcosa di buono. Attenzione, però a non dimenticare chi siamo. Qualche anno fa, in un vero e proprio decalogo delle vacanze, i vescovi francesi avevano messo in guardia: spesso in estate «siamo meno cristiani, a volte non lo siamo affatto». Per esempio, si va meno a Messa, si dimentica la dimensione della comunità, si possono assumere atteggiamenti discriminatori e arroganti. Non a caso, molti rapporti proprio in vacanza si rivelano più difficili, perché lontani dalle incombenze, dai doveri quotidiani ci mostriamo per quel che siamo sul serio. L’estate allora, come tempo per andare dentro sé stessi, per guardarsi con gli occhi del cuore, per scoprire che ci sono spigoli nel nostro carattere da smussare. In questo ci aiuta il rapporto con gli altri. In un antico Angelus, il 25 luglio 1965 Paolo VI suggeriva: «date pure all’incontro con le altre persone qualche momento di buona conversazione, specialmente con quelle domestiche: le famiglie si ritrovano forse separate durante l’anno dagli impegni che ciascuno deve osservare con orari così stringenti. Concedetevi momenti di pace domestica e poi anche gli incontri con gli amici, e gli incontri con le poche persone, con i gruppi affini ai quali siete vincolati. Date davvero questa distensione della buona amicizia».

L’estate come tempo per rinsaldare buone relazioni è un invito suggestivo e importante. Da vivere e approfondire, magari alla luce di qualche bella pagina di riflessione o di scrittura, anche solo di romanzo. Il che può aiutarci anche a guardarci meglio intorno. In un suo augurio estivo, datato 24 giugno 2020, papa Francesco auspicava che questo periodo potesse e possa «essere tempo di serenità e una bella occasione per contemplare Dio nel capolavoro del Suo creato». Guardare il bello in cui siamo immersi è infatti la più suadente e per certi versi facile, scuola di fede. E di preghiera, nel senso che lo stupore, la meraviglia facilitano il ringraziamento. Ma il bello non si trova soltanto nella natura o nell’arte. Ma anche negli altri. Vedere il buono nelle persone con cui veniamo a contatto: ecco il compito delle vacanze. Un impegno che può persino spingersi a rovesciare lo stile del nostro riposo, magari sollecitandoci a vivere la dimensione del servizio là dove di solito ci piace che siano gli altri a soddisfare le nostre esigenze.

Ma forse non è neanche quello il punto: a fare la differenza è l’atteggiamento di fondo che anima i giorni di relax. Se non ci consideriamo superiori a nessuno, se non siamo solo impegnati a guardarci allo specchio, persino mettersi a disposizione anziché pretendere che siano agli altri a farlo con noi, può essere un’occasione di festa. «Il cristiano si rallegra di tutto – scrivevano i vescovi francesi – perché la sua gioia è innanzitutto in Dio». Vale anche, anzi soprattutto, per le vacanze. Il cui specchio, per parafrasare madre Teresa di Calcutta, è il sorriso, «che dà riposo alla stanchezza, che nello scoramento rinnova il coraggio». Buona estate dello spirito allora, con la speranza di tornare dai giorni di riposo con il cuore un po’ più felice. Consapevoli che se la fede va in vacanza, è per rafforzare i muscoli dell’anima, per pulire lo sguardo, per ritrovare nel vocabolario del cuore la parola “grazie”. Grazie per la vita, per la bellezza che circonda, per il dono degli altri.

Noi in equilibrio tra gli aeroplani e il paracadute (di Marco Voleri)

 

Sia l’ottimista che il pessimista danno il loro contributo alla società. L'ottimista inventa l'aeroplano, il pessimista il paracadute. George Bernard Shaw La vita è una sinfonia di opposti, una composizione maestosa dove ogni nota – nonostante possa sembrare a volte fuori posto o in contrasto con le altre – ha il suo spazio e il suo momento. In questo grande spartito, ottimisti e pessimisti danzano al ritmo di un dualismo eterno, un pas de deux tra speranza e realtà, tra ciò che potrebbe essere e ciò che è. Gli ottimisti solcano i cieli della fantasia e del progresso, tracciando arcobaleni tra le nuvole e dipingendo l'azzurro con il pennello dell'immaginazione. Inventori, sognatori, volontari, e molti altri. Ecco il puzzle variegato di coloro che vedono nel domani la promessa di un sole radioso, anche quando il cielo è coperto. La loro fede nel futuro è il motore che ha spinto l'umanità oltre i confini del già noto, facendoci osare ciò che una volta era impensabile. Hanno dato, ad esempio, ali alla nostra specie, con l'invenzione di macchine volanti che hanno reso il cielo non più un limite ma un nuovo inizio. Dall'altra parte, i pessimisti sono i custodi della prudenza, i guardiani della saggezza ancestrale che ci insegna a guardare prima di saltare. Sono coloro che tessono paracadute con i fili della cautela, che preparano piani B e salvagente, non per augurarsi il peggio ma per garantirci che, anche di fronte all'inevitabile gravità delle circostanze, potremo atterrare in piedi. Il loro contributo non è meno prezioso di quello degli ottimisti, perché ci ricordano che l'audacia senza riflessione è spesso pericolosa: ogni volo può nascondere una caduta. In questo eterno contrasto, va in scena la vita. Non si tratta di scegliere chi ha ragione e chi torto, perché entrambi sono essenziali al nostro progresso e alla nostra sopravvivenza. L'ottimista che non ascolta il pessimista può facilmente bruciarsi le ali, ma il pessimista che non si lascia mai tentare dal volo può dimenticare il brivido dell'ascensione e la bellezza del mondo visto dall'alto. Ecco, allora, che la vita si rivela un tessuto di molti fili, alcuni tesi verso il cielo, altri ancorati in terra. E noi, tessitori incerti tra questi fili, cerchiamo il giusto equilibrio tra coraggio e cautela, tra innovazione e memoria, tra il desiderio ardente di volare e la necessità vitale di sapere come atterrare. In questo convivono la nostra grandezza e la nostra fragilità: in questo dialogo continuo tra ciò che ci spinge in avanti e ciò che ci trattiene indietro. E, forse, è proprio questo perenne dibattito tra l'essere ottimisti o pessimisti, tra l'inventare aeroplani e il costruire paracaduti, che si nasconde la vera essenza del nostro crescere quotidiano: la capacità di immaginare mondi migliori, pur non perdendo mai di vista la realtà dei mondi che abitiamo. La speranza e la prudenza non sono nemici, ma compagni di viaggio: due facce della stessa medaglia che, insieme, ci portano verso orizzonti sempre nuovi, con la consapevolezza che volare è possibile, ma sapere atterrare è necessario.

L’invidia, imparare da chi è migliore di noi (di Marco Voleri)

 

Sono immune dall’invidia, libero di provare ammirazione e amicizia, che bellezza! Non c’è niente di più triste di qualcuno che soffre per il successo altrui, che è schiavo della critica e del rancore, che trasuda invidia, che si dibatte nel dispetto: un infelice. Jorge Lo confesso, ho molti difetti. Ho provato a scriverli a penna su un foglio e, in effetti, ci sono cose che non posso cambiare, altre che potrei migliorare, altre ancora che sono vizi più che difetti. Ci sono anche cose che so fare bene, che faccio con passione, piacere e costanza, anche se si tratta spesso di lavoro. Nella mia vita ho incontrato tante persone più brave di me e, se mi devo riconoscere un pregio, devo tornare a uno spunto che mi diede mia mamma in adolescenza: “quando c’è qualcuno che lavora bene osservalo e prendi tutto quello che fa, facendolo diventare tuo”. Così ho sempre fatto, in effetti. Chi è più bravo di te – e capita a tutti noi di trovarcene uno di fronte – è spesso fonte di ispirazione. In qualche caso anche di invidia. Qui mi faccio una domanda semplice: se sai fare bene le tue cose, perché devi invidiare? E, ancora: invidiare chi? Uno che è più bravo di te? Devo dire che raramente ho invidiato uno più bravo di me, e ne ho conosciuti tanti. Ho avuto la fortuna di incontrare molte persone nella mia vita, ho conosciuto gente più colta di me, che ha fatto cose belle e importanti. E sapete cosa? Mi è spesso sembrato un bel regalo poterci stare insieme a parlare. Mezz’ora, magari, con uno più bravo di me. Penso che una chiave di lettura interessante, rispetto a questo, sia porsi nella condizione mentale di sentirsi un eterno apprendista. Essere disposti a migliorare, imparare, cogliere ispirazione da chi è più bravo di noi è una delle chiavi per poter crescere a livello personale. Di converso, l’invidia riesce in un attimo a oscurare – come un vetro appannato – la nostra visione. Pensate allo sport: a me, ad esempio, piace molto il gioco del biliardo all’italiana, quello con quattro birilli bianchi e uno rosso, tre palle di colori diversi, senza buche. È una pratica che mi appassiona, ho preso anche qualche lezione in passato, ma sono abbastanza negato. Se vuoi imparare a giocare a biliardo non devi giocare col segnapunti ma con uno bravo. E cosa succede quando giochi con quello bravo? Perdi, magari ti lascia a zero. Ma impari. Con il giocatore mediocre forse vinci, ma non impari niente. Nel mondo artistico ho avuto la fortuna di incontrare artisti con talento puro, dai quali ho imparato molto. La cosa che ho assimilato di più, al netto delle prestazioni artistiche, è il comportamento dei grandi artisti, quelli che portano cognomi importanti e si comportano con umiltà ed eleganza. Ecco cosa: nella mia piccola esperienza, i grandi artisti che ho conosciuto hanno sempre avuto questa caratteristica. Altri, molto meno grandi, hanno spesso mostrato invidia, arroganza e prepotenza, generando un clima violento. La violenza non è forza ma debolezza, è qualcosa che non crea ma distrugge. Esattamente come l’invidia che, come diceva Isaac Asimov, è l’ultimo rifugio degli incapaci. Imparare da chi è più abile di noi credo possa essere la chiave per superare i nostri limiti, scoprirne di nuovi e raggiungere nuove vette di realizzazione personale neanche immaginate.

UT UNUM SINT di don Sergio Carettoni.

Non vi è alternativa nella vita della Chiesa se non dentro una ritrovata centralità del Cristo, il Risorto, per cammini di uomini e di donne a loro volta personalmente in viaggio lungo sentieri evangelici di fraternità, con nel cuore, nella mente e nella volontà di ciascuno un senso profondo e totale di generatività, di fecondità, di bellezza e di significatività nello Spirito santo.

È nel primario valore dell’unità, grazie al rispetto evangelico delle diversità di ogni persona e di ogni Comunità, e nel secondario valore delle molteplici diversità, protese ciascuna e tutte insieme alla reciproca unità, che Gesù pone, non tanto la metà di un cammino ancora tutto da compiere, bensì il punto di partenza di ogni relazione già in corso, affinché sia vero il viaggio esistenziale di discepolato e di apostolato dei suoi.

Sappiamo bene che l’affermazione “Affinché siano una cosa sola” non è solo la traduzione italiana dell’espressione latina che ritroviamo nel racconto evangelico di Giovanni, quando egli riporta il pensiero volitivo e programmatico di Gesù: i miei discepoli siano una cosa sola come io e te, o Padre, lo siamo sempre fin dal principio; anch’essi siano una sola cosa con noi e la stessa cosa tra loro.

All’interno di ogni singola espressione di Chiesa, dentro le più diverse esperienze quotidiane di Comunità dei discepoli di Gesù – che si tratti di un piccolo gruppo di credenti o di una ben più articolata vita parrocchiale, o di una struttura estesa di Chiesa diocesana e Universale – riecheggiano sempre le medesime parole di Gesù, non solo come memoria del desiderio orante espresso una sera dal giovane Maestro di Nazareth, bensì come un imperativo evangelico, sia a livello personale sia a livello comunitario. È un imperativo ben saldo, costantemente posto di fronte a ciascuno e a tutti: essere uno con gli altri discepoli, essere insieme una unità con il Figlio, nel raggiungimento della meta del Padre, lungo le infinite vie di Vangelo, abitate tutte dallo Spirito santo.

Tra fratelli e sorelle per medesima fede in Gesù, il Risorto, l’unità tra loro non è desiderio, bensì espressione operosa della volontà di Dio. Qualcosa che chiede il coinvolgimento della coscienza di ciascuno, la scelta di crescere giorno per giorno in un legame reciproco di appartenenza – gli uni agli altri e gli altri al singolo –, perché non si è mai Chiesa facendo a meno di qualcuno a noi diverso, ma sempre dentro lo sforzo di accogliere, di abbracciare e di amare la diversità pulsante nella immensità dell’umanità.

(…)Partendo, allora, dal binomio unità e diversità, ci ritroviamo pur sempre di fronte all’imperativo di avviare come singole Chiese processi di unificazione evangelica, anzitutto interna, conseguentemente esterna. Utile diventa una bilancia dove, se sul piatto destro abbiamo a che fare con l’imperativo di essere consapevoli e rispettosi delle differenze e delle reciproche frammentarietà presenti nelle persone e nelle singole Comunità ecclesiali, sul piatto di sinistra siamo spinti a misurarci, a tentare ancora una volta, a crescere insieme di fronte all’altrettanto imperativo evangelico dell’unità.

“Uniti nella diversità, diversi nell’unità” non è un gioco di parole, o un calcolo di equazione relazionale, semmai la possibilità di dare medesimo valore al termine unità e al termine diversità. E qui la sfida del bilanciamento reciproco e misericordioso si fa grande perché, al di là degli equilibrismi di pensiero e di azione di ciascuna Confessione, per il vero discepolo e apostolo di Gesù in gioco c’è solo il raggiungimento e la condivisione dell’unica meta, la paternità di Dio, quella del Dio di Gesù, il Figlio unigenito e unificante, il Cristo Risorto, che ritorna a essere orizzonte e punto di arrivo di ogni singolo percorso e vissuto di fede.

È la condivisione della paternità di Dio punto di arrivo, certo, ma anche memoria pulsante di un punto passato di partenza, che dentro il vissuto dei singoli discepoli del Figlio suo ricorda e narra a tutti come tutti veniamo da lui e a lui molti ritorniamo per la via del Risorto. (…)

La dynamis divina, cioè la forza potenziante dello Spirito santo ecco non solo creare occasioni di incontro fra le diversità ecclesiali, ma il rinascere in ciascuna di esse della volontà di un nuovo legame con il medesimo Vangelo, nodo di unità nella diversità per quanti vi aderiscono con libertà di cuore, di mente e di volontà. Tutto è possibile, quindi, anche ricomporre saldamente ogni vissuto di passata frattura, tutto nella forza del Cristo Uno.

Centro di ascolto vicariale

 

Il Centro di Ascolto è un’espressione della comunità cristiana e della propria testimonianza di fede. È uno strumento che la comunità si dà per ascoltare coloro che si trovano in difficoltà.

L’ascolto è lo stile, il modo di essere, che qualifica l’attività del Centro d’Ascolto e che racchiude in sé le motivazioni profonde che ne richiamano la dimensione evangelica. Così facendo il Centro di Ascolto si colloca tra quegli strumenti operativi che aiutano a capire che la funzione pedagogica della Caritas non è una questione teorica ma deve realizzarsi in una pratica coerente e credibile di servizio.

Dalla comunità il Centro di Ascolto riceve il mandato dell’ascolto dei poveri e ad essa riporta le richieste dei poveri, ricoprendo un ruolo pastorale attraverso il quale si offre una risposta concreta alle persone e si stimola la solidarietà e la corresponsabilità di tutta la comunità nel servizio verso il prossimo.

È il luogo, la cui funzione è quella di incontrare, accogliere, ascoltare e prendere in carico una persona che vive una situazione di fragilità sociale, economica e culturale rispettando, senza pregiudizi e prevaricazioni, le storie di vita incontrate.

Anche nel nostro vicariato è presente, a Gravedona, un centro di ascolto portato avanti dall’opera volontaria di alcune persone. Le richieste sono tante e le forze poche; pensaci...essere volontario del Centro di ascolto potrebbe essere un modo per far fruttificare i talenti che abbiamo. Il centro di ascolto si trova  in via Don P. Pedroli 1 (piazzale della chiesa) Gravedona ed Uniti – Fraz. Consiglio di Rumo (CO), 

Tel. 0344 81266, 

Email casaincarita@gmail.com

orari segreteria: Martedì 14.00 – 15.30, Sabato 10.15 – 11.45

Sinodo sulla sinodalità

 

È terminata  il 29 ottobre la prima sessione dell’assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi che ha continuato il processo sinodale aperto il 9 ottobre 2021. Dopo le tappe diocesane, nazionali e continentali e in vista della seconda sessione dell’assemblea che si terrà a ottobre dell’anno prossimo; è stata diffusa l’attesa relazione di sintesi dei lavori che sono stati portati avanti in questo mese da vescovi, diaconi e presbiteri, consacrate e consacrati, laiche e laici, testimoni di un processo che intende coinvolgere tutta la Chiesa. Il documento, intitolato Una Chiesa sinodale in missione, raccoglie gli elementi principali emersi nel dialogo, nella preghiera e nel confronto, secondo uno stile, quello della sinodalità, che si sta cercando di imparare.

I lavori si sono svolti seguendo la traccia offerta dall’Instrumentum laboris, identificando e rilanciando le questioni ritenute prioritarie e i temi bisognosi di approfondimento. Questa relazione, infatti, è uno strumento al servizio del discernimento che dovrà essere fatto conseguentemente. Essa è strutturata in tre parti: “Il volto della Chiesa sinodale”, sui principi teologici che illuminano e fondano la sinodalità; “Tutti discepoli, tutti missionari”, riguardante coloro che sono coinvolti nella vita e nella missione della Chiesa; “Tessere legami, costruire comunità”, sulla sinodalità come insieme di processi e rete di organismi che consentono lo scambio tra le Chiese e il dialogo con il mondo.

Venti capitoli sono suddivisi in queste tre parti e ognuno di essi raccoglie: le convergenze, ovvero i punti fermi a cui la riflessione può guardare; le questioni da affrontare, quindi ciò che necessita di ulteriore approfondimento teologico, pastorale, canonico; le proposte, possibili piste da percorrere suggerite, raccomandate o richieste con determinazione. I 273 punti sono stati approvati a larghissima maggioranza dall’assemblea sinodale, con consensi quasi sempre ben oltre il novanta percento. Tra i tanti argomenti toccati ci sono la sinodalità («La ricchezza e la profondità dell’esperienza vissuta conducono a indicare come prioritario l’allargamento del numero delle persone coinvolte nei cammini sinodali»), l’iniziazione cristiana («rendere il linguaggio liturgico più accessibile ai fedeli e più incarnato nella diversità delle culture»), il ruolo dei laici («I carismi dei laici, nella loro varietà, sono doni dello Spirito Santo alla Chiesa che devono essere fatti emergere, riconosciuti e valorizzati a pieno titolo»). (tratto da  www.retesicomoro.it).

La relazione di sintesi completa è disponibile su www.synod.va

Formiamo tutti una comunità

 

La famiglia in cui si nasce, la comunità in cui si vive, le persone conosciute, gli amici, la scuola, la cultura dell'ambiente: tutto incide profondamente nel tessuto dell'esistenza e ne fa parte.

Nello stesso tempo la vita di ciascuno, le decisioni che si prendono lasciano traccia di sé nella vita degli altri, negli ambienti che si frequentano.

Nessun uomo è un'isola. La pianta della vita non cresce nella solitudine di un deserto. Vivere con gli altri fa parte dell'esistenza umana, ma è anche una responsabilità.

Le persone hanno un grande potere gli uni sugli altri.

Si può esercitare o subire per il bene, ma anche per il male.

 

Giuseppe pedalava felice sulla bicicletta nuova per la via principale della sua città. C'era un po' di traffico, ma era così bello sfrecciare in mezzo alle macchine. Ai semafori riusciva sempre a risalire la colonna di automobili che lo avevano superato.

Mentre pedalava imitava il rumore di un motore con le labbra. Si sentiva una Ferrari.

Era così preso dalla sua immaginaria velocità che si accorse della via di casa, che si diramava sulla sinistra, solo all'ultimo momento. Scartò bruscamente verso il centro della strada dimenticandosi di segnalare la svolta con il braccio. Sentì lo stridio disperato dei freni dell'auto che Io seguiva. Seguirono uno strillo e una colorita serie di imprecazioni. Lo strillo era stato emesso dalla signora Calderoni che stava tranquillamente camminando sul marciapiede con la borsa della spesa e si era improvvisamente trovata a una spanna l'automobile che aveva sbandato. La signora Calderoni finì seduta poco dignitosamente sul marciapiede, mentre la borsa della spesa si rovesciava per terra.

Una bella arancia rotolò via e il cane del Commendator Gigli, giocherellone com'era, parti al suo inseguimento, ma in questo modo tese il guinzaglio e fece traballare bruscamente il suo padrone, che, per non cadere si appoggiò su Mario, il postino, che stava infilando la posta nelle buche dei portoni.

Così una lettera indirizzata in Via Verdi 123, finì in una buca del 121.

La lettera era indirizzata al ragionier Lanfranchi e lo convocava urgentemente, proprio quella mattina, al suo nuovo posto di lavoro. Il ragioniere non la ricevette e perciò decise di approfittare della mattinata per dare un'occhiata alla caldaia. Trafficò un bel po', ma non era molto pratico e si fece un bel taglio a un braccio.

Corse al Pronto Soccorso dell'Ospedale e di là avvertì la moglie, che lavorava in banca.

La moglie del ragioniere era un po' apprensiva, si fece sostituire dalla collega Olga e accorse all'Ospedale. Olga telefonò al marito Giorgio che faceva il centralinista-traduttore alla base dei cacciabombardieri della Nato: «Devo sostituire una collega, vai tu a prendere i bambini a scuola». Giorgio uscì cinque minuti prima che finisse il suo turno di lavoro e arrivasse il cambio.

In quei cinque minuti arrivò una comunicazione disperata in codice dall'altra parte del mare: «Un missile impazzito è sfuggito al nostro controllo e si dirige su di voi. È un errore, non un atto di guerra. Ripeto: non è un attacco! È solo un tragico errore!». Nessuno prese la comunicazione.

Qualche minuto dopo il missile si abbatté sulla base. Il Quartiere Generale ordinò di rispondere all'attacco con un feroce bombardamento. Gli altri risposero con una rappresaglia peggiore.

Altri paesi si lasciarono coinvolgere. Una settimana dopo era Guerra Mondiale.

E tutto perché Giuseppe non aveva segnalato la svolta a sinistra.

 

C’è un legame invisibile che collega gli uomini tra di loro. Si vive sempre con gli altri.

Non dovremmo mai dimenticare questa realtà:

gli esseri umani si influenzano a vicenda nel bene e nel male.

Nessuno dei nostri atti è neutro. Siamo stati creati per essere popolo, comunione.

I cristiani sono chiamati a costruire il regno di Dio:

una comunità di giustizia, di amore, di pace, di solidarietà.

 

(tratto da: Bruno Ferrero, Parabole e storie, Elledici)

È tempo di….. (Stefano Bucci)

 

Siamo al cuore di questa serie di riflessioni sulla Parrocchia. Una domanda, però, ha segnato questo percorso fin dai suoi primi passi: cosa c’è che non va? Insomma, quando si affronta la questione della Parrocchia, pur avendo chiari i suoi fondamenti, sembra sempre di trovarsi alle prese con una “coperta corta”. Come fare per rendere missionaria una istituzione nata per la conservazione dell’esistente?

(….) Ripercorriamo ora i fondamenti della Parrocchia, analizzati nell’articolo precedente alla luce del dato biblico fondativo (Gv 13,34-35), per evidenziare quali cambiamenti tocchino in profondità l’attuale modello parrocchiale provocandone una reale e decisa conversione.

PRIMO FONDAMENTO: “COME IO HO AMATO VOI”

È il comandamento dell’Amore, che sta alla base dell’esperienza cristiana. Essa appunto si configura fin dalle origini come “esperienza”. La persona entra in relazione con il Signore Gesù Risorto e vive l’esperienza del Vangelo. Il cristianesimo non è anzitutto una religione, è un incontro personale.

Il problema è che nel tempo questa esperienza si è progressivamente “cristallizzata” in una religione, o meglio, in una cultura. L’esperienza cristiana è divenuta cultura cristiana. La viva relazione tra il credente e il Risorto ha lasciato spazio ai valori e alle norme. Così, oggi, si è cristiani se si condivide una serie di valori e se si rispetta un insieme di norme. Il cristianesimo è divenuto progressivamente una “scatola vuota”. L’esperienza si è cristallizzata in cultura e ha escluso la relazione personale.

Questo aspetto si accentua ancora di più se si considerano i cambiamenti che toccano il rapporto tra la persona e la religione (che qui per questioni di contesto non sono richiamati). In sostanza, se il cristianesimo viene concepito come religione o cultura, come insieme di valori o di norme, la parrocchia perde la sua rilevanza culturale in un contesto come quello attuale, che relega la cultura cristiana ai margini della società.

Occorre oggi perciò rimettere al centro l’esperienza vitale della relazione tra la persona e il Signore Gesù, ricreando nuove condizioni che la favoriscano. Occorre promuoverne una cura, affinché i cristiani possano rimettere al centro un’esperienza di salvezza e non fermarsi all’osservanza di una serie di valori o di norme. 

SECONDO FONDAMENTO: “COSI’ AMATEVI ANCHE VOI”

La seconda parte del comandamento dell’Amore in un certo senso “incarna” l’esperienza dell’Amore di Dio nella vita ordinaria. Il Vangelo si diffonde e diviene esperienza prorompente di salvezza e di libertà attraverso una “prossimità”. Per questo la dinamica evangelica si diffonde testimoniando un’esperienza. E la testimonianza richiede tempo e spazi di condivisione della vita.

Il problema è che, nel caso della Parrocchia, la prossimità si è progressivamente cristallizzata in un territorio. La comunità cristiana, costituita giuridicamente in Parrocchie distribuite nei territori, ha acquisito nel tempo un’attenzione limitata ad uno spazio circoscritto. In altre parole: con chi vivere la testimonianza e la prossimità? Con quelli del mio paese, del mio quartiere. E questo ha garantito molte possibilità in passato e favorito la diffusione del cristianesimo.

Oggi però è cambiato il rapporto tra le persone e il territorio. Non esiste più una residenzialità così statica come nel passato. È cresciuta la mobilità delle persone. Il mondo è divenuto più piccolo. Così la Parrocchia è rimasta “piantata” su un territorio circoscritto, a volte insignificante dal punto di vista sociale, mentre attorno a lei le persone hanno iniziato a muoversi, mettendo in scacco il tema del “territorio” come tentativo di incarnazione della prossimità.

Occorre oggi rimettere a fuoco il tema della prossimità per far sì che l’esperienza cristiana ritorni a incontrare e a trasformare la vita reale e ordinaria delle persone. La comunità cristiana e i cristiani tutti sono chiamati ad effettuare perciò un passaggio decisivo: dall’abitare un territorio ad abitare il “terreno dell’umano”. Questo richiede decisamente una modifica del modello di Parrocchia attuale.

TERZO FONDAMENTO: “GLI UNI GLI ALTRI”

È il tema della comunità. L’esperienza dell’Amore di Dio, il Vangelo, porta il suo effetto quando tocca il terreno dell’umano e diviene luce, sale, lievito per tutti gli uomini, quando si incarna in una comunità. Questo è un tema ecclesiale.

Il problema è che la comunità parrocchiale nel tempo ha posto il suo centro nel “pastore proprio” (così come lo definisce il diritto canonico). I cristiani, progressivamente, hanno caricato il parroco di una responsabilità enorme in ordine all’evangelizzazione e la spinta evangelizzatrice si è cristallizzata in una sola persona. Diciamo pure che i laici cristiani hanno delegato al sacerdote ciò che è loro proprio in forza del battesimo.

Questo aspetto si lega al primo. Oggi è cambiato il rapporto tra le persone e le istituzioni. La Parrocchia (e con essa il parroco) non costituisce più un’istituzione rilevante. E ciò perché oggi non si tiene più conto dell’autorità, ma dell’autorevolezza. Perciò non può più essere autorevole una parrocchia dove la maggior parte dei suoi parrocchiani vivono il cristianesimo come cultura o come religione e non come esperienza. E, d’altro canto, non può più essere autorevole un parroco che tenta di testimoniare il Vangelo senza la sua comunità.

Occorre oggi spostare il baricentro della dinamica evangelizzatrice dal parroco alla comunità cristiana. Solo così sarà possibile restituire alla Parrocchia quella potenzialità generativa che aveva caratterizzato la sua origine.

Queste tre rivoluzioni appena descritte indicano la via per riscrivere un nuovo alfabeto della Parrocchia senza tradire i suoi fondamenti.

Cosa c’è che non va? (Stefano Bucci)

A partire da questa domanda può nascere una ricerca positiva di ciò che è fondamentale per la vita e per l’azione di un’istituzione come la parrocchia. Tenendo conto della sua storia si vuole ora andare alla ricerca di quei fondamenti evangelici che danno ragione al senso della sua esistenza e che dovrebbero orientare prassi evangelicamente rinnovate in grado di testimoniare oggi la bellezza del Vangelo.

Il dato biblico originario che fonda l’istituzione ecclesiale di una forma di vita comunitaria, di un ‘noi’ cristiano che si concretizza nel tempo e nello spazio, si riscontra fin dalle origini. Il Vangelo di Giovanni ci consegna i tratti distintivi della natura della Parrocchia: «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (13,34-35). Al centro di tutto il Vangelo: il comandamento nuovo dell’Amore che per primo Dio ha mostrato all’umanità attraverso il suo Figlio Gesù Cristo. L’Amore è il centro propulsivo della relazione tra la persona e il suo Signore e diviene l’anima vitale della relazione tra i credenti. Tutto questo dà vita ad un dinamismo testimoniale. In questi tratti si scorgono i fondamentali della natura della comunità cristiana.

Il principio dell’Amore che prospetta il senso della comunità cristiana rivela due implicazioni basilari che è bene esplicitare:

a) Ciascuna persona e ogni comunità cristiana in genere non può essere auto-sufficiente;

b) Ciascuna persona e la comunità cristiana non possono essere il ‘tutto’ della Chiesa.

«Nel primo caso tutto sarà così dislocato e così raffreddato, che si finirà per gelare; nel secondo caso, invece, i legami dell’unità diventeranno così stretti e l’amore così geloso che si correrà il rischio di soffocare» (J. A. Möller, Dell’unità della Chiesa, o sia del principio del cattolicesimo secondo lo spirito dei Padri de’ primi tre secoli della Chiesa).

Per questi motivi, l’analogia preferita dalla Scrittura per delineare la comunità cristiana, è da identificarsi nell’organismo (1 Cor 12,1-31; Ef 4,1-16; Col 2,19). «La comunità ecclesiale si configura, più precisamente, come una comunione ‘organica’, analoga a quella di un corpo vivo e operante: essa, infatti, è caratterizzata dalla compresenza della diversità e della complementarietà» (G.P. II, Christifideles Laici, 20).

La natura della parrocchia, alla luce di queste prime riflessioni, si rivela orientata a mostrare all’umanità l’universalità del Vangelo e la cattolicità della Chiesa. Il Vangelo si attua in una relazione delle persone con il Signore e di riflesso dei credenti tra loro. Per questo la sua fecondità si realizza visibilmente nella vita della Chiesa che perciò abita in un territorio. In sostanza i due tratti tipici della natura della parrocchia sono legati a questi due aspetti:

a) Una comunità di credenti, che vivono la loro relazione con il Signore accogliendo il Vangelo e sperimentano la fecondità dello Spirito nelle relazioni con gli altri;

b) La prossimità reciproca di queste persone e di essi con tutti gli altri che si realizza visibilmente in un ‘terreno comune’. Vangelo nella Comunità e Comunità nel Territorio.

(…) La parrocchia è una comunità di fedeli determinata che nell’ambito di una chiesa particolare viene costituita stabilmente. La cura di questa comunità è affidata dal Vescovo ad un proprio pastore (Can. 515 – §1). Anche persone che non hanno ricevuto l’ordinazione sacerdotale possono partecipare alla cura pastorale di una parrocchia (Can. 517 – §2). Una o più parrocchie possono essere affidate in solido a più sacerdoti (Can. 517 – §1). Come regola generale la parrocchia dovrà essere legata ad un territorio, ma è possibile configurarla anche in riferimento ad altri criteri (Can. 518).

Come si comprende da queste norme, sapientemente flessibili, tenendo fermi i punti chiave costitutivi della parrocchia è possibile mettere in atto una creatività pastorale ampia nel ripensare un modello parrocchiale per l’oggi ecclesiale. E allora, ritorniamo alla questione iniziale: cosa c’è che non va? Il sospetto è che questa domanda possa trovare una risposta non tanto nelle forme o nell’organizzazione di una comunità cristiana in un territorio.  Sono il senso stesso della comunità e del Vangelo ad essere cambiati per l’uomo di oggi. Perciò sarà necessario riscrivere un nuovo alfabeto parrocchiale caratterizzato da nuovi segni e da nuovi significati.

Le parrocchie... (Stefano Bucci)

 

Ripercorrere la storia della parrocchia può essere utile per mettere a fuoco il senso profondo della sua identità, per capire le ragioni del suo operare e per sperimentare, a partire da esse, nuove prassi cariche di Vangelo per il contesto attuale. È proprio la prospettiva dell’analogia con il tempo presente a caratterizzare questa serie di appunti storici. In altre parole si ritiene utile mettere in luce, tra la molteplicità dei tratti storici inerenti alla parrocchia, soltanto quelli che comunicano qualcosa di significativo per l’oggi.

L’origine della parrocchia si colloca in un tempo di profondi mutamenti culturali e politici, che si attuano in seguito alla pace costantiniana. Da questo momento in poi la vita delle istituzioni cristiane e la vita delle istituzioni civili entra gradualmente in un processo di sovrapposizione. L’organizzazione della vita civile in questo periodo è accentrata nelle città. La nascita delle prime parrocchie, nel IV-V secolo, avviene per rispondere alla necessità di una cura pastorale delle campagne. Interessante è notare che per affrontare un’istanza emergente dal contesto del tempo ci si riferisca al dato di fede – la natura stessa della comunità cristiana che deve trovare una sua forma concreta – e al dato antropologico, valutando adeguatamente la realtà.

Le tappe successive alla genesi parrocchiale possono essere messe a fuoco, semplificando, attraverso la messa in luce di alcune ‘derive’ a cui la parrocchia ha rischiato di prestare il fianco. Ciascuna di esse, però, ancora oggi trasmette un insegnamento importante.

Nell’epoca feudale la figura di parrocchia si ‘irrigidisce’ in relazione alle persone e ai territori che determinano la configurazione dell’ordinamento vigente. L’azione pastorale subisce la tentazione di schiacciarsi sulla ‘prestazione’ di un servizio verso un territorio o una persona potente (che dà un beneficio). È la deriva del funzionalismo a insidiare questo tempo. Essa mette in guardia la comunità cristiana dal ridursi ad una mera prestatrice di opere.

Il rinnovamento che avviene in epoca medievale nella società influisce positivamente sullo sviluppo delle parrocchie. La riforma gregoriana dà una nuova spinta evangelizzatrice alla parrocchia che acquista maggiore rilevanza in ambito sociale e culturale. Il modello di questa epoca è molto diversificato, ma si connota per una costante assimilazione di società civile e vita cristiana che aveva preso il via in epoca costantiniana. La cosa interessante da notare è che le spinte di riforma della parrocchia provengono per lo più dall’esterno: il modello dei comuni, da una parte, e la proliferazione degli ordini mendicanti, dall’altra, sollecitano la comunità cristiana a ripensarsi per rispondere al proprio mandato di evangelizzazione. Una deriva che insidia la vita parrocchiale di questo tempo è quella dell’‘adattamento’. Il modello parrocchiale muta in questo frangente non tanto per rispondere meglio al Vangelo, quanto invece per corrispondere al contesto. Questo portò ad una involuzione delle diocesi e delle parrocchie e a una decadenza ecclesiale che culminò nel Concilio Lateranense V (1512).

È a partire dal Concilio di Trento (1545-1563) che si apre una nuova fase per la vita delle parrocchie, consegnandoci un modello che risulta tutt’ora implicitamente determinante. In positivo questa spinta di riforma definisce i criteri della territorialità e il riferimento al pastore proprio, il parroco. La deriva che insidia questo processo risiede nella ‘burocratizzazione’. Al di là dei molti aspetti evangelicamente fecondi che questo modello prospetta ci sono alcuni nodi che impediscono alla parrocchia di far fronte ai profondi cambiamenti che seguiranno nell’età moderna, prima fra i quali il fatto che il presupposto di tale impostazione si basa su una società prevalentemente cristiana e sulla costante sovrapposizione tra società cristiana e società civile. Istanze che da questo momento in poi, subiranno una lenta ma inesorabile separazione.

La vita delle persone, sempre di più, si allontana dal vissuto della comunità cristiana. Nel secolo scorso, anche attraverso la spinta del Concilio Vaticano II (1962-1965), si riaccende l’interesse della riflessione teologica e pastorale sulla parrocchia. L’accento viene posto dal Concilio sulla comunità, anziché sul parroco, e sull’edificazione della Chiesa, anziché sulla cura delle anime. Ma questa direzione non viene colta e il modello parrocchiale tridentino resta pressoché immutato indebolendone la spinta evangelizzatrice.

Tutti percepiamo oggi la scarsa rilevanza che le nostre parrocchie rivestono per la vita delle persone e della società attuale. Con chiarezza sperimentiamo le crisi che attraversano una istituzione millenaria come quella della parrocchia, ma soprattutto segnano il vissuto delle comunità cristiane. Ci chiediamo: perché? Cosa ci siamo persi, ma soprattutto cosa ci sta suggerendo lo Spirito in questo tempo? Ripercorrere questi appunti di storia parrocchiale e interrogarsi sul senso della parrocchia potrà aiutare a riconfigurare un modello di comunità cristiana in grado di testimoniare la vita del Vangelo nel cambiamento e nella complessità del contesto attuale.

Dagli Scritti di Maccio

 

«Questo è quello che chiedo al tuo Vescovo e al tuo confessore:

IO, MISERICORDIA, voglio essere amato ancor più.

La Mia Incarnazione è dono della MISERICORDIA TRINITARIA!

La Mia Parola è dono della MISERICORDIA TRINITARIA!

La Mia Passione è il DONO della MISERICORDIA TRINITARIA!

La mia Risurrezione è il DONO della MISERICORDIA TRINITARIA!

IO SONO LA MISERICORDIA!

 

Desidero allora che, dalla domenica della mia Risurrezione fino alla domenica della festa di Me Misericordia, io resti visibile nel dono del mio CORPO DAVANTI A TUTTO il mio gregge, perché, meditando sull’immensità dell’AMORE NOSTRO, voi possiate realmente aprire il vostro cuore alla SPERANZA che vi salva, e vi dà certezza della vita che vi attende nella Luce TRINITARIA! ECCO COSA HA OPERATO LA MISERICORDIA. LA SPERANZA è certezza e vi salva tutti!

In quei giorni i miei pastori non si stanchino di incoraggiare il mio gregge alla Speranza della Vita Nuova donata! Si parli della Vita Eterna in cui tutti siete chiamati. Aprano tutti il cuore alla Speranza e a me Misericordia! La mia Resurrezione è per voi la Speranza che annienta il dolore, che dà un senso alla sofferenza, che la vostra libertà di allontanarvi da me, Misericordia, vi ha acquistato! Solo l’AMORE che SIAMO Noi poteva arrivare a tanto per la sua Creatura! Figli, vi aspetto nel mio cuore, il cuore della Trinità che è Amore, il cuore della MISERICORDIA che si è DONATA!».

Io chiedo che in quei giorni di gran gioia per la Pasqua che è Dono della mia MISERICORDIA, nella mia presenza nel mio Corpo e Sangue in mezzo a voi, si metta al centro dell’Altare Me Vivo Eucaristia, con al lato la Croce, che vi ricorda anche quanto riscatta la sofferenza che diviene Speranza che salva, e dall’altro l’immagine del mio Cuore MISERICORDIOSO, immagine della mia Risurrezione, che è il vostro premio, perché, guardando a me presente ora nel mistero, sappiate che già ora sono con voi tutti i giorni, ma guardandomi anche Risorto nella mia gloria, possiate essere certi che quell’uomo risorto sono Io Uomo, che vuole che là, dove sono Io, siate anche voi! Amate il Mio Cuore che brucia di Misericordia per voi! Figli Sacerdoti, parlate a tutti che la Mia Risurrezione è gioia, certezza e speranza per TUTTI!».

La Resurrezione...una promessa folle...e folli sono sicuramente tutti quelli che ti hanno creduto e continuano a crederti. È da folli perdonare, è da folli amare senza aspettarsi nulla in cambio, è da folli donare la vita... per chi...?

Ma sapete qual è la follia ancor più grande? La pretesa che questo Dio ha di continuare ad essere contemporaneo; continuare ad amare, essere ucciso e risorgere.  Tutti gli avvenimenti storici, sono prigionieri del tempo in cui sono accaduti, al di là della risonanza che possono avere per secoli nel cuore degli uomini. I giorni della Pasqua di Gesù sono invece a noi contemporanei. E’ questa la “folle” pretesa di quell’uomo. Essere risorto vuol dire essere contemporaneo ad ogni momento della storia futura, ad ogni attimo di ogni uomo. Non semplicemente come un qualunque altro contemporaneo, ma come uno che è alla radice di ogni nostra azione e che cattura il nostro sguardo e il nostro cuore per darci il senso e il peso di tutto ciò che avviene.

Tu, nostro Dio. Tu sei un Dio folle…

Mi piace tanto questo.

Forse ciò vuol significare che tu hai corso dei rischi.

A volte io mi dico che se Tu fossi un vero Dio

non avresti dovuto lasciare morire tuo Figlio,

così, su una croce. Altre volte penso il contrario.

Amare così, amare fino a questo punto… Tu, Dio, sei folle! Sì!

Questo mi aiuta a dare ciò che ho di meglio di me stesso.

Mi aiuta ad essere un po' folle con i miei amici. Folle! Sì..

Perché anche amare se i tempi sono duri, ciò non ci impedisce di far festa…

Ah! È bello quando c’è i sole sul volto di ognuno…

Ma è davvero cosa folle desiderare la felicità di tutti? Dio folle destami!

Rendimi folle dei miei compagni. Folle della vita. Folle di me. E soprattutto di TE!!!

Lasciamoci invadere, catturare, riempire da questo Dio folle e sarà una vera Pasqua...ogni giorno.

Senza comunione non c'è missione!

 

Martedì scorso (27 febbraio), presso l’Oratorio di Dongo, si è tenuto per la nostra Comunità Pastorale il secondo incontro sul Libro Sinodale  TESTIMONI DI MISERICORDIA.

Il Relatore don Alberto Pini, Vicario Episcopale per la Pastorale (e Direttore dell’Ufficio missionario diocesano), ha proposto ai presenti una riflessione in cui, oltre alla competenza, si è colta molta familiarità, affabilità e concretezza sia nella esposizione sia nelle conclusioni (anche e soprattutto perché queste ultime sono state poste in forma di domanda).

Don Alberto ha sottolineato subito un atteggiamento molto coinvolgente, tratto dal Vangelo: quello del ragazzo che offre cinque pani e due pesci e, questo, per sfamare migliaia di persone… ma era tutto ciò che il ragazzo aveva e li ha messi nelle mani di Gesù, che stava compiendo la missione affidataGli dal Padre.

Anche la nostra Comunità Pastorale si inserisce in un cammino iniziato:  la missione indicata e affidata a tutta la Diocesi dal Sinodo.

Non è possibile però svolgere questa missione senza COMUNIONE: nella realtà attuale in cui le persone sono sempre più disorientate, in cui le relazioni si vivono più frequentemente con animali o cose e in cui però il desiderio di comunione emerge sempre e comunque, la Bibbia ci svela la fonte di questo intimo desiderio:  poi il Signore Iddio disse: “Non è bene che l’uomo sia solo…” (Genesi 1,18).

Le domande-impegno sorgono immediate: Dove trovo comunione nella mia vita? Cosa ostacola la comunione?

La vocazione della Comunità Pastorale (la nascita delle prime risale a oltre 40 anni fa e oggi il 90% delle parrocchie sono riunite in Comunità) è di essere casa della comunione: le Comunità devono brillare per l’intensità delle relazioni umane.

Fondamento della Comunità è l’attenzione rinnovata e estesa al territorio, metodo è la collaborazione fraterna.

La parola Comunità deriva dal latino: cum  (= con)  munus (= dono, ma anche dovere, responsabilità).

Comunione esprime ciò che ci collega: fa riferimento a Dio e ci lega coi fratelli; ha una sorgente: il mistero di Dio Trinità Misericordia, che si dilata e comprende tutti noi.

Pertanto la Chiesa deve manifestare questo volto: il cristiano ascolta la voce di Dio, permette che lo Spirito agisca in lui per manifestare la comunione, non lascia fare, non sta alla finestra, sta in mezzo alla gente, partecipa, sa “compromettersi”. La Comunità Pastorale riunisce le forze dei cristiani e le “spalma” su tutti.

Don Alberto ha posto in conclusione queste domande-impegno per tutti i credenti della nostra Comunità Pastorale:

Riusciamo a trovare un ambito da dove partire per “tirarci insieme”?

C’è disponibilità a collaborare con i fedeli delle altre parrocchie?

La responsabilità di tutti noi è che la Fede resti nella nostra zona.

I punti cardine:   •Meditazione sulla Parola di Dio  •Eucaristia  - •Carità.

Incontro con don Stefano Cadenazzi, segretario del Sinodo Diocesano

 

Giovedì sera il nostro oratorio ha ospitato il Delegato Vescovile per l’XI SINODO che si è svolto nella nostra diocesi con la sua apertura il 31 agosto 2017 e concluso nel maggio 2022. Don Stefano Cadenazzi è venuto tra noi portandoci una grande novità : aiutarci ad aprire una grande finestra dentro le nostre comunità ritrovandovi così sguardi e volti trasformati da una nuova Conversione, quella della “GIOIA”!

Convertirci, cioè rivoluzionare, attuare cambiamenti, rivedere le conversioni a cui siamo chiamati, suscitando il desiderio di camminare insieme consapevoli che siamo dentro una profonda trasformazione culturale e sociale. Non sono state presentate ricette o soluzioni facili o novità eclatanti; l’unica vera novità è la novità della vita cristiana. Vogliamo che la vita delle nostre comunità esprima la gioia del Vangelo? Allora lasciamoci catturare dalla novità di questo Sinodo. Ripartiamo dal nostro Battesimo puntando su GESU’, (conversione ha a che fare con convergere, convergere su Gesù) l’Essenziale riconoscendo il primato del dono che già ognuno di noi ha ricevuto : “La Grazia”. E’ Gesù stesso che all’inizio della Sua Missione ci esorta :”Convertitevi alla gioia del Vangelo, accogliete la Buona Novella”!

La CONVERSIONE non ha come primo movimento il FARE, il trovare strategie vecchie o nuove perché i numeri tornino a crescere. Conversione è anzitutto riconoscere ciò che abbiamo ricevuto, il dono della Fede, riconoscere e rimettere al centro Gesù; la conversione principale sta nel cuore, nello sguardo e nella testa.

Dopo un riassunto di come hanno lavorato i sinodali, don Stefano ha fatto scorrere alcune pagine del libro contenente gli orientamenti pastorali invitandoci a sostare in modo particolare sulle prime due parti : RICONOSCERE E INTERPRETARE.

RICONOSCERE la fonte della Misericordia, nome stesso di Dio ed essere noi suoi messaggeri ascoltando i segni e i sogni di questo tempo. Volgere lo sguardo alla ricca storia di santità antica e nuova che ha visitato il nostro territorio, una storia che ci consegna delle responsabilità (… Guanella, Chiara Bosatta, Rebuschini, Spinelli e quel colore rosso che tanto ci caratterizza: don Renzo Beretta, suor Maria Laura Mainetti, e don Roberto Malgesini ). Sentire una forte protezione della Vergine Maria. Con  la sua presenza ha lasciato nei vari Santuari dimostrazione di Grande Amore, Cura e Fedeltà (anche qui nella nostra comunità pastorale). Valorizzare l’intervento della TRINITA’ MISERICORDIA di Maccio che porta in sé un messaggio molto interessante rivolto alla Chiesa Universale. Questi Santuari, visitati da tante persone per turismo o pellegrinaggi possono diventare luoghi di nuovo annuncio.

INTERPRETARE. Missionarietà : tornare a rileggere gli Atti degli Apostoli…”erano assidui nella preghiera e nell’ascolto della PAROLA...” In questa seconda parte emerge il BATTEZZATO, colui che è chiamato a vivere l’annuncio e a portarlo. Cristo è il primo missionario che ci viene incontro. Una grande sfida ci aspetta: trasmettere la FEDE. Sinodalità: è quanto Gesù si attende dalla sua Chiesa, studiare insieme con delicatezza, laici e consacrati l’essere annunciatori della Gioia Evangelica. Ministerialità: non un sinonimo di potere, ma di servizio. Il Vescovo  ci propone tre nuovi ministeri: accoglienza (nata al tempo del Covid), consolazione e compassione. San Paolo esorta a portare i pesi gli uni degli altri.

SCEGLIERE  - la terza parte del libro dà indicazione che già esistono, valutare le realtà delle nostre comunità e chiederci cosa serve. Ha segnalato l’importanza della prima proposizione :”Centralità dell’ Eucarestia” e la trentaquattresima che parla del compimento del Regno. Noi, adesso, ci troviamo nel mezzo di questo cammino.

Facciamoci aiutare dall’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium perché è da lì che è scaturito il contenuto del Sinodo. La storia è nelle mani di Dio ed è Lui che la porta avanti, affidiamoci allo Spirito Santo e a Maria Santissima con l’impegno di sostenerci a vicenda nella preghiera reciproca.

Continueremo la  nostra riflessione martedì 27 febbraio alle ore 20:45 con don Alberto Pini, vicario episcopale per la pastorale.